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MONZESI
Franco Valagussa
Intervista di Carlo Vittone sul  libro MONZESI - cinquanta personaggi della città


Franco Valagussa    Nato a Monza nel 1934, sposato con tre figli. Studi al liceo Zucchi e laurea in Medicina presso l'Università di Pavia con specializzazione in cardiologia ed endocrinologia. Resta tirocinante a Pavia fino al 1962. Nel 1963 comincia a lavorare alla divisione medica dell'ospedale San Gerardo di Monza nell'equipe del prof. Cellina (che egli considera suo maestro) e dal 1970 nella appena sorta sezione di malattie cardiovascolari, di cui diventa aiutodirigente. Nel 1976 diventa primario della neonata divisione di cardiologia, carica che manterrà fino al 2001, quando per raggiunti limiti d'età è costretto alla pensione. Attualmente è direttore scientifico dell'associazione “Brianza per il Cuore” e responsabile operativo del settore educazionale dell' “Hearth Care Foundation” fondazione per la lotta alle malattie cardiovascolari dell'Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri.

foto di Fabrizio Radaelli


Gentilissimo nei modi, parla lentamente e quasi scandendo le parole, con tono uniforme. Ma si rivela anche dotato di humour che mostra in piccole battute spesso autoironiche. Proprio nei giorni della nostra intervista viene completata dall'Associazione “Brianza per il Cuore” la realizzazione del progetto per la defibrillazione precoce di comunità, ultima tappa in termini di tempo di un suo impegno pluridecennale nel campo della lotta alla mortalità per cause cardiache . E' proprio da lì che partiamo nel nostro colloquio.

Professore, qual è la lontana origine del Suo impegno in questo campo?

Tutto nasce dalla mia partecipazione ad un progetto internazionale avviato dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) denominato “MONICA” e durato dal 1984 al 1994 con trentanove centri diffusi in ventitre paesi tra i quali appunto l'Area Brianza coordinata da Giancarlo Cesana. Scopo del progetto era quello di comprendere alla radice l'andamento e i determinanti delle malattie cardiovascolari. Per la Brianza ciò significò analizzare la mortalità totale e cardiovascolare nella fascia d'età tra i 25 e i 64 anni, raccogliendo poi dati anno per anno con un preciso protocollo per gli eventi coronarici acuti. Delle persone colpite da infarto si esaminavano tutte le fasi “concrete”, dal primo insorgere dei segni di attacco cardiaco via via fino al 28° giorno. E da questi dati emerse che nell'84 su circa 1000 persone colpite da infarto, quasi una su tre moriva e il 70% di esse senza neppure giungere in ospedale per le prime cure quasi sempre per arresto cardiaco. Non solo: almeno la metà dei decessi fuori ospedale avveniva in persone che mai avevano segnalato sintomi premonitori della malattia coronarica. Questi dati spingevano a intervenire su due fronti: anzitutto la prevenzione ma anche il pronto intervento.

Ma è così decisivo il pronto intervento in caso di arresto cardiaco?

Guardi, il tempo di intervento utile in caso di arresto cardiaco è intorno ai 4-5 minuti. Dopo, e fino a poco più di 10 minuti, si può ancora intervenire ma è alto il rischio che il mancato arrivo di sangue al cervello provochi danni irreparabili o addirittura il coma irreversibile. Dopo poco più di 10 minuti la sopravvivenza è solo casuale.

E cosa si deve fare?

E' noto che oggi, in caso di arresto cardiaco da fibrillazione ventricolare l'unico modo di intervento è l'uso di un defibrillatore semiautomatico, ovvero di un apparecchio che fornisce una scarica elettrica in grado di interrompere l'aritmia maligna e far ripartire il cuore. Per usarlo non occorre più essere medici, ma solo aver seguito un corso di addestramento con periodici aggiornamenti. Dal 1992 ad oggi abbiamo addestrato almeno circa 25.000 giovani alla rianimazione cardiopolmonare con il progetto “Salvare il Cuore”. Ed ora nella città di Monza sono oggi circa 250 i “laici” addestrati all'uso del defibrillatore semiautomatico per integrare il Sistema di emergenza Medica 1-1-8 (carabinieri, polizia di stato, polizia municipale, vigili del fuoco, protezione civile). Proprio in questi giorni Brianza per il Cuore darà, grazie alla generosità della comunità, 30 defibrillatori pronti all'impiego al SSUEm 118 per la città di Monza. Poi il progetto si estenderà all'intera Brianza, spero in tempi rapidi. Lo scopo è quello di portare la sopravvivenza per arresto cardiaco dall'attuale 5% al 20-25% entro due anni.

E invece l'aspetto della prevenzione?

Anche questo è fondamentale per ridurre o almeno ritardare gli eventi, sia in campo cardiologico come del resto anche in altri campi della patologia medica. Le prime iniziative concrete al riguardo partirono dal Canada e le strategie adottate diedero presto buoni frutti. Si trattava soprattutto di intervenire sulle fasce più giovani della popolazione, quella in età scolare,promuovendo la cultura dell'”educazione alla salute”. Per prima cosa scrissi ai Ministeri competenti chiedendo se c'erano esperienze a cui riferirsi. Aspetto ancora la risposta (ride). Poi cercai un contatto con l'OMS ed ebbi un colloquio colla responsabile del progetto Health Education Office in Bruxelles. Ma venni quasi sgridato da lei.

Come sgridato?

Beh, in maniera benevola direi, poi finimmo per collaborare. Mi disse in sostanza che noi medici dovevamo piantarla di entrare nelle scuole senza alcuna preparazione specifica a raccontare le nostre cose, per quanto importanti fossero. I ragazzi non ci avrebbero ascoltato e non avremmo avuto risultati. E mi diede un rapporto sull'educazione alla salute steso da un pedagogo inglese dell'Università di Southampton e copia della raccolta di tutti i programmi sull'educazione alla salute per i giovani svolti nel mondo compilata da un ricercatore svedese. E allora cominciai ad avere le idee più chiare. Per avere dei veri risultati bisognava impostare l'intervento seguendo le linee di una pedagogia fresca e utile e soprattutto adatta all'età dei ragazzi. A noi medici cardiologi toccava di formare gli insegnanti per la promozione della salute; mentre agli insegnanti spettava poi l'operatività con gli studenti, da sviluppare all'interno del curricolo abituale.

Per esempio?

Beh, per quanto riguarda i danni del fumo, alle scuole elementari si tratterà di far svolgere dei giochi che coinvolgano i piccoli. A quell'età l'aspetto ludico è essenziale. Alle medie inferiori con “giochi di ruolo” un po' più impegnativi, per esempio facendo finta di creare un'immaginaria città di cui gli studenti siano amministratori e chiedere loro cosa fare per affrontare e risolvere il problema. Questo crea partecipazione e stimola la fantasia. Alle scuole superiori si può già fornire una vera informazione scientifica, anche se semplificata e sempre adeguata al livello d'età. Alcuni di questi programmi di intervento nel mondo scolastico, come quello mirato alle scuole superiori, hanno ormai vent'anni di vita, mentre due anni fa siamo partiti con un altro programma per le scuole elementari e medie inferiori che è un vero e proprio minicorso di pronto soccorso per emergenze cardiache.

Ma, scusi, Lei tutti questi progetti li ha seguiti dedicandovi tempo oltre la sua normale attività di primario ospedaliero?

Sì, in sostanza facevo questa attività nel tempo libero, principalmente nei week-end. E mia moglie, che nei primi tempi brontolava nel vedermi sempre occupato, ora è diventata la mia principale sostenitrice. Anzi direi che tutta la mia famiglia mi ha sostenuto: mia figlia Laura, che è medico, segue direttamente l'addestramento del personale laico per l'uso del defibrilllatore, mentre gli altri miei figli mi aiutano ognuno secondo le sue competenze.

Lei come ha deciso di fare il medico?

Non so dirlo con precisione. Però posso raccontarle una vicenda curiosa. Quand'ero piccolo, avrò avuto sì e no quattro anni, fui colto dalla difterite mentre mi trovavo in una colonia estiva gestita da suore a Borgioverezzi, in Liguria. Pare che mi abbia accudito una suora di nome Clementina, ma io naturalmente non ricordai più nulla per anni. Poi, dopo tantissimo tempo, fui chiamato all'istituto delle Preziosine di Monza per un consulto e qui mi fu detto che una certa Suor Clementina voleva vedermi. Naturalmente era la stessa suora che mi aveva assistito tanti anni prima e mi disse che in quell'occasione lontana io non facevo che strillare e lamentarmi. E che lei in un momento di esasperazione avrebbe detto “Signore, fallo tacere, fallo diventare o prete o medico!”. E forse dunque ero quasi predestinato.

E se non fosse diventato medico, cosa Le sarebbe piaciuto fare?

Mah, non so. La mia insegnante di greco diceva sarei stato un buon avvocato.

Carlo Vittone


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 5 luglio 2003